No, non è il titolo di un film d’amore ma il termine utilizzato in psicologia per definire un profondo disagio psicologico che si manifesta nella sfera affettiva, altrimenti detto DIPENDENZA AFFETTIVA.
Chi non vorrebbe essere amato follemente da qualcuno? Chi non ha mai sperimentato il piacere di amare e di essere amato da qualcuno? Il bisogno di amore è un bisogno naturale insito in ogni essere umano. Chi lo nega ha probabilmente avuto in passato esperienze negative, frustanti, poco serene di questo sentimento.
Un sano rapporto affettivo si basa sul riconoscimento reciproco delle parti, in un equilibrio tra il dare e il ricevere amore ma quando diventa un rapporto che “lega troppo”, in cui si altera stabilmente questo equilibrio, l’amore può diventare un’ossessione.
Attenzione, non tutti i “grandi amori” sono patologici! Alcune dinamiche possono essere transitorie e quindi non cristallizzate o addirittura normali in alcune fasi della vita di coppia. E’ chiaro, per esempio, che all’inizio di una storia ci si senta completamente coinvolti, tanto da mettere tutto il resto in secondo piano, percependo questo nuovo amore come totalizzante. O pensiamo, per esempio, al così detto “mal d’amore”, che ci strugge il cuore quando non sappiamo ancora se l’amore che proviamo per qualcuno sarà o meno ricambiato o a seguito della delusione di un rifiuto ricevuto, che sicuramente minerà la nostra autostima.
Quando invece si tratta di love addistion? Quando percepiamo il nostro bisogno d’amore come una “droga” (da cui il collegamento col termine dipendenza). Questo stato affettivo si instaura in coppie “disfunzionali” in cui uno dei due partner ha la tendenza ad essere dipendente dall’altro e l’incastro perfetto ma sbilanciato dei due alimenta e nutre (in modo malsano) il loro rapporto. E’ come se il “drogato d’amore” perdesse la propria capacità critica di sé, della situazione che si trova a vivere e dell’altro. Vive e si nutre di questo amore a tal punto di ripiegarsi su sé stesso e a chiudersi ad altre esperienze per paura del cambiamento. Anzi, ha bisogno di mantenere ferme determinate sue certezze, soffocando qualsiasi desiderio o interesse personale in nome di un amore che deve occupare il primo posto in assoluto nella sua vita.
Cosa alimenta questa “ossessione”? L’immediato ma temporaneo stato di benessere che sperimentiamo nel momento in cui l’altro riconosce e reagisce ai nostri comportamenti. E la ricerca costante di questo benessere alimenta il bisogno di aumentare sempre di più la dose, cioè la quantità di tempo da trascorrere con l’altro (limitando drasticamente il tempo da dedicare a noi) come se fossimo incapaci di interiorizzare la sua immagine. L’assenza dalla persona da cui si dipende viene percepita come altamente dolorosa e devastante. Ma più passeremo del tempo assieme più avremo l’illusione di alimentare il nostro bisogno di sicurezze e la sensazione (sempre illusoria) di controllo sull’altro.
Perché pare essere un fenomeno tutto al femminile? Perché la tendenza a reagire ai traumi è diversa da uomo a donna. Gli uomini tendono ad allontanare dalla loro mente ogni episodio legato al dolore, alle carenze, alla violenza o alle prevaricazioni subite e a volte per far questo si identificano con l’artefice di tali comportamenti. Le donne invece hanno la tendenza a rivivere ciò che hanno subito, ricreando nel presente dinamiche passate nel tentativo (vano) di poterle controllare per potersi finalmente riscattare da quel passato doloroso.
Cosa accomuna i dipendenti d’affetto? La provenienza da una famiglia in cui sono stati trascurati, soprattutto nell’età evolutiva, i bisogni emotivi della persona; una storia familiare caratterizzata da carenze di affetto autentico che tendono ad essere compensate attraverso una identificazione con il partner, un tentativo di salvare lui/lei che in realtà coincide con un tentativo interiore di salvare se stessi; una tendenza a ri-attribuirsi nella propria vita di coppia, più o meno inconsapevolmente, un ruolo simile a quello vissuto con i genitori che si è tentato a lungo di cambiare affettivamente, in modo da poter riprovare ad ottenere un cambiamento nelle risposte affettive pressoché inesistenti ricevute nella propria vita; l’assenza nell’infanzia della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza che genera un bisogno di controllare in modo ossessivo la relazione e il partner, nascosto dietro un’apparente tendenza all’aiuto dell’altro. Non importa quanto siano avvenute realmente queste mancanze, piuttosto se sono state percepite tali. Ciò che conta infatti sono la percezione affettiva e il vissuto soggettivo che ognuno conserva nella propria infanzia anche se non sempre coincide con la realtà.
Quali sono i vissuti emotivi tipici di questa dipendenza? La tendenza a sottovalutare la fatica associata a tutto ciò che si fa per aiutare la persona amata al punto da raggiungere, senza percepirlo per tempo, purtroppo, livelli elevati di stress psicofisico; vero e proprio terrore dell’abbandono che porta a fare cose anche impensabili pur di evitare la fine della relazione; tendenza ad assumersi tutta la responsabilità e le colpe dell’andamento della vita di coppia; autostima prevalentemente bassa e conseguente convinzione profonda (ma infondata) di non meritare la felicità; tendenza a nutrirsi di fantasie legate a come potrebbe essere il proprio rapporto di coppia se il partner cambiasse, piuttosto che a basarsi su pensieri legati al rapporto attuale e reale; propensione a provare attrazione verso persone con problemi e contemporaneo disinteresse e apatia verso persone gentili, equilibrate, degne di fiducia, che al contrario suscitano noia.
E’ possibile uscirne? Nel momento in cui ammetteremo di avere un problema e smetteremo di alimentare una falsa speranza! Il che sembra cosa banale ma non così scontata se pensiamo a quanto i nostri “modelli d’amore” conservati nella memoria ci condizionano e ci fanno ritenere “normali” determinati “sacrifici” in nome dell’amore, appunto. Ed è proprio la speranza in un cambiamento impossibile (perché ormai i ruoli si sono pietrificati) che fa sopravvivere il problema e tende a cronicizzarlo.
Il vero cambiamento inizia nel momento in cui si tocca il fondo e si prova una totale disperazione che rappresentano la possibilità, finalmente, di porre fine ad ogni illusione che ha nutrito a lungo questo rapporto patologico per poter guardare in faccia alla realtà.
Dobbiamo fare tutto da soli? Se ci riusciamo, ben venga! Altrimenti ci si può avvalere del supporto psicologico individuale. Ma ciò che è certamente utile per velocizzare e stabilizzare i miglioramenti è il confronto in gruppo tra persone che vivono lo stesso problema perché ciò consente di prendere un impegno. Un impegno per sé stessi, con gli altri e davanti agli altri e per riconoscere le distorsioni della realtà, grazie alle somiglianze della propria vita con la vita altrui e vincere le difese che non permettono di vedere la verità sulla propria storia personale. Gli altri del gruppo diventano importanti specchi e insieme, si possono ritrovare la voglia, le motivazioni e le possibilità per uscire da relazioni tossiche e spesso anche molto pericolose che, in alcuni casi, sono le fondamenta della propria infelicità.