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CORONAVIRUS – FASE 1 E 2

In questo periodo politico (non mi sento di definirlo storico), siamo esseri sospesi tra atti di umanità e di disumanità.
In quanto esseri umani, dovrebbe andare da sé poter essere capaci di umanità. Purtroppo, invece, non è sempre così. Avere umanità significa saper pensare agli altri, anche agli “ultimi”, sapersi mettere “nei panni di”, ascoltare, condividere, collaborare, comprendere, sospendere il giudizio, guardare oltre.
Mancare di umanità comporta una visione egoistica dell’altro, come nemico o concorrente, per cui lo devo superare, schiacciare, umiliare, dimenticare.
Siamo diventati disumani e ci hanno fatto diventare disumani nel momento in cui abbiamo iniziato a puntare il dito contro, a pensare ognuno per se stesso e per i propri interessi personali, a decidere chi può meritare che cosa e chi no, a giudicare, a criticare, a lamentarci senza muovere un dito, a pretendere.

E’ altrettanto disumano non poter vedere i propri cari, non poter lavorare e di conseguenza guadagnare, non poter portare i bambini al parco, non sapere come arrivare a fine mese ma dover continuare a pagare mutuo e tasse, non poter dire addio come si deve ad un caro defunto.
E qui mi voglio soffermare.Quanto disumano deve essere vedere il proprio marito, fratello, zio, cugino esser portato via da un’ambulanza il giorno x perché positivo al Covid-19 e pensare che quella potrebbe essere l’ultima volta che lo si è visto? Quanto disumano deve essere ricevere il giorno Y una telefonata veloce dall’ospedale dove si viene avvisati dell’ora del decesso? Quanto disumano deve essere arrovellarsi e sentirsi in colpa per non essergli potuti stare vicino, per averlo lasciato solo nel momento della sofferenza? Elaborare un lutto è già di per sé una cosa difficile. In queste condizioni diventa impossibile. Per elaborare un’assenza, ci insegna la psicologia, si necessita della presenza: innanzi tutto presenza di una salma su cui piangere, presenza del conforto sentito di qualcuno, presenza di un ricordo vivo, di un’immagine, di un nome da pronunciare. Chi ha perso un proprio caro recentemente, ha avuto solo una bara chiusa su cui piangere, alla presenza di un pugno di persone, compreso il sacerdote. E poi il silenzio, la solitudine, la reclusione, la quarantena! E ti assale lo sconforto, il dubbio che in quella bara non ci sia davvero un tuo caro ma che magari, nella concitazione del momento, i sanitari non si siano sbagliati e ci abbiano messo dentro uno sconosciuto, il pensiero di non averlo potuto salutare degnamente, di quali saranno state le sue ultime parole, le sue ultime volontà, rivolte a chi, ti assale la rabbia…Come poter riportare un po’ di umanità in tutto questo è davvero una grande sfida! Dovremmo far in modo di rendere collettivo ciò che è individuale, quando tutto sarà finito e ci sarà permesso di nuovo di riunirci sotto lo stesso tetto, senza dimenticarci che sotto lo stesso cielo già ci siamo tutti! Di poter magari commemorare tutti coloro che non ce l’hanno fatta, chiamandoli per nome, uno ad uno, per poterli ricordare con affetto e non per fare la conta dei morti (come avviene in TV ora!), nella speranza che tutto questo possa almeno alleviare di poco la disumanità di un lutto impossibile da elaborare.